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 Studenti di Hoeth

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MessaggioTitolo: Studenti di Hoeth   Studenti di Hoeth Icon_minitimeLun Feb 25, 2008 6:45 am

Telemone Rathoy, apprendista della Decade Terza, fra gli studenti di quel secolo accademico era forse il più dotato in
Magia Vera. Era però completamente un disastro in Disciplina delle Frecce e dell’Arco; e il pensiero di dover
affrontare – la decade successiva – anche il Corso di Maestria della Spada lo colmava di frustrazione e inquietudine.
Avrebbe trascorso anche più ore delle prescritte nella lettura e meditazione trascendentale delle pagine del
Fondamento di Hoeth; non gli costava troppa fatica l’uscita in corpo astrale né esercitare la Coercizione di Forza.
Nottetempo anzi Camminava Fra i Mondi lungo le piscine del gineceo della Prima: le ragazze – non ancora esercitate
nella Vista – potevano percepirlo a malapena come un riflesso sulle colonne di alabastro; niente di più strano di un
riverbero dell’acqua o del vapore che esalava dalla sauna. Al contrario dello scaltro Telemone che godeva così,
arcanamente celato, dell’incanto dei bianchi corpi dell’elfe e l’eccellenza dei loro canti poetici. Nessuno dei suoi
coetanei e dei compagni di corso era riuscito ad ottenere altrettanto: ciò lo colmava segretamente di orgoglio quanto e
forse più delle lodi del Custode! Certo, ci avevano provato: ma Sommo Teclis li aveva colti in flagrante fin sulla
soglia dell’oltremondo spirituale, all’istante ridestati nel corpo fisico e puniti per un mese con l’Esercizio dell’Ambra.
Disgustoso. Terribile. Il fluido mistico di alcuni, dopo il castigo, puzzava di stallatico per ancora tre stagioni.
Incoccare tuttavia la freccia, tendere l’arco, mirare a piè fermo e colpire – colpire almeno: non sperava di centrare! – il
bersaglio di paglia a trenta passi innanzi a lui lo svuotava d’ogni vigore fisico e morale. Spiava con invidia quella
sciocca di Polimnia, quel sempliciotto di Nathaniel o quell’asino di Hellyas (che in seconda non leggeva ancora
correttamente neppur la runa Sariour… “braccia rubate all’azionare una balista”!…) scagliare i loro dardi e infilzare
il disco rosso. Il tiro migliore che riuscì mai a Telemone fu quello – barzelletta di tutta Hoeth – con cui recise
dall’elmo di un Guardiano il bianco cimiero di piume di cigno. Pericoloso, micidiale certo: non fosse stato che il
Maestro di Spada si trovava al lato posto della parete dei bersagli…
A questo proposito lo avviliva ancor di più, attraversando il Cortile del Perfetto Acciaio, osservare gli studenti più
grandi scambiare colpi con gli Istruttori di Lama. I migliori fra quei giovani, baldi elfi apprendisti incanalavano
nell’acciaio il loro mistico potere: le grandi spade brillavano di luce bianca e i difetti dell’attrito, lo sbilanciamento,
l’eccesso o l’insufficienza di forza nel portare il fendente, l’affondo, la parata venivano temperati dalle forze della
magia. Quelli sì che erano maghi e guerrieri; quei duelli erano un canto, non uno scontro fisico! Questo si aspettava
Ulthuan da uno Scolaro di Hoeth! Telemone sospettava, al contrario, non solo di non riuscire a sollevare la lama; ma
prima ancora addirittura che, quando l’avrebbe per la prima volta indossata, la cotta di maglia prescritta dall’esercizio
gli sarebbe stata larga, troppo stretta, cadente, misera: insomma l’avrebbe reso ridicolo. L’immagine perfetta del suo
fallimento accademico.
In effetti Telemone, benché desideroso di dedicarsi alla sola magia, eccellere negli incantesimi e non curarsi di niente
altro – gli fosse costata l’incolumità personale, l’essere inetto su un campo di battaglia; l’infamia di non essere in
grado di prestare il proprio braccio alla difesa del Re Fenice e la Regina – sapeva bene che le regole della Torre
prevedevano ottimi voti anche in materie militari. Nessuno sconto, nessuna scappatoia: solo i migliori si diplomavano
Magi. Tale la Tradizione di Hoeth e il giovane, per l’assoluta lealtà che portava alla Torre Bianca, a ciò che essa
rappresentava per la cultura e civiltà Asur, mai e poi mai l’avrebbe messa in discussione. Del resto il principio
filosofico che stava a fondamento dello studio delle armi, anche per coloro che aspiravano alla Candida e Luminosa
Sapienza, era infallibile: padroneggiare uno strumento mondano – l’arco, la spada – era necessario alla sicura
visualizzazione e al totale controllo del gesto e lo strumento mistico. Altro erano gli innocui incantesimi – come
Fortuna E’ Volubile – altro è scagliare contro un nemico l’Ira di Khaine o le Fiamme della Fenice: per questo
occorrevano la fermezza, la prontezza, la spietatezza e il vigore di un combattente. Ma lui non ci sarebbe mai riuscito.
Mai. Ne era nato incapace, finalmente lo comprendeva. E allora: quale sarebbe stato il suo insulso destino?
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MessaggioTitolo: Re: Studenti di Hoeth   Studenti di Hoeth Icon_minitimeLun Feb 25, 2008 6:45 am

Fra cupi esiziali pensieri di questo genere, tiri sbagliati, dardi perduti o spezzati, rimproveri dell’Istruttore e risa dei
compagni, erano ad ogni modo trascorse anche quel giorno le statutarie tre ore di Disciplina delle Frecce. La sua
tortura quotidiana. Altri rientravano in aula, per le tre ore che li attendevano di Incantamento dei Minerali,
sbadigliando per la noia o pregando Isha che gli evitasse un “manchevole”, o peggio un “ottuso”… Voti che a
rimediarli occorreva un “sublime”. Telemone riponeva faretra ed arco e percorreva i corridoi a testa bassa e con le
lagrime agli occhi. A soli sessantasette anni, l’età in cui la maggior parte dei suoi coetanei temevano al massimo il
rimbrotto di un mentore, e spendevano le proprie energie cavalcando sotto il sole di Ellyrion, egli conosceva già il
terrore del fallimento e si struggeva e consumava d’umiliazione. Afflizioni che si acuivano quando, per forza di cose
ché il percorso era obbligato, nel tragitto dal cortile ai laboratori passava innanzi l’Alta Camera delle Stelle: la stanza
del Rettore, gli appartamenti dell’Immenso Teclis. Le insegne del grande mago sui portali e le colonne gli
sembravano più remote – ed impossibili ad ottenersi – di Aldebaran o delle Pleiadi che davano il nome a quella sala.
Sala che, quel giorno, trovò però con le imposte socchiuse.
La tentazione era troppo forte. L’atto disdicevole, ma… Spiò. A Telemone apparve dunque, dallo spiraglio dell’uscio,
un intimo scorcio dell’intimità del Custode: un ingenuo dipinto della grandezza di una pergamena appeso a una
cornice di legno bianco scolpito. Sul legno figure infantili, lavorate con infinita dolcezza; rune dedicate agli Spiriti
Asur che proteggevano per tradizione i bambini. Sulla tela il ritratto di un fanciullo – gracile, dall’incarnato
malaticcio; lo sguardo e l’espressione niente affatto intelligenti – cui un pittore di imbarazzante buona fede aveva
imposto di posare, a cavallo del puledro di un unicorno, con in pugno una spada ed indosso un’armatura. Benché ogni
dettaglio enunciasse regalità – la foggia delle armi, l’araldica, l’abito e i gioielli ed il profilo del bambino elfico – la
perfezione e la sincerità del pennello tradivano però l’anima vera del soggetto: quel bimbo, di chiunque si trattasse,
doleva ammetterlo ma era certo un meschinello… “A dirla tutta – pensò Telemone – uno sciocco o infelice con
assoluta evidenza. Che pena! Ed io che mi dispero della mia accettabile mediocrità”. E, nel formulare quel pensiero,
avvertì la sensazione di un estraneo, acuto, irresistibile sguardo che leggeva rapidamente nei recessi della sua mente.
D’istinto Telemone si volse; cerco attorno a sé nelle ombre del corridoio l’Altra presenza ch’era per certo vicina. Già
conosceva quel genere di sensazione: “l’occhiataccia” la chiamavano in gergo; un insidioso incantesimo di
coercizione e psicomanzia. Impersonale ma efficace. Il modo ovvero che usavano i docenti per sorprendere gli
studenti distratti, che tentavano di copiare agli esami scritti o la cui curiosità – se si affrontavano questioni oscure –
stava prendendo una qualche piega pericolosa. Mai però così profondo e difficile da contrastare!
Telemone, ad ogni modo, corse a nascondersi in una loggia attigua e tentò di opporsi all’intrusione incantata. Vero:
ormai lo avevano colto in flagrante (ma forse non ancora riconosciuto). Ed era certo una grave disobbedienza
contrastare un incantesimo disciplinare: ma essere scoperti e di lì identificati nell’atto di spiare nelle stanze di
Teclis!… Avrebbe anche potuto costargli l’espulsione. “Coraggio!” – sibilò concentrandosi rannicchiato sotto
un’elica di scale. Ma ormai, oltre alla stretta mentale, lo tenevano per le spalle due mani in carne ed ossa. Anzi in
raffinati guanti bianchi: sul cui dorso, in filo d’oro purissimo, spiccavano le cifre del Supremo Custode.
Teclis. Stirpe di Aenarion. Voce di Lileath. Signore di Hoeth., Fiamma di Saphery. Scienza di Ulthuan… Ma ora,
soprattutto, il suo Rettore e il suo giudice. Castigatore di uno studente che aveva sbirciato, furtivo come un ladro,
nella Camera delle Stelle. Altro che matricole del gineceo. Altro che Ambra, altro che stallatico: per Telemone era
finita per sempre.
“L’eccessiva, diciamo pure oltraggiosa curiosità – enunciò con gaiezza il Custode – non è un difetto. Piuttosto una
virtù.”
“Si, Supremo.”
“L’insolenza è coraggio. La compassione è amore. Soprattutto quella di un animo compatito.”
“Si, Supremo.”
“In effetti la Grande Opera distrae, a volte, dalle piccole ma importantissime cure di questo mondo.”
“Vero, Supremo.”
“Per esempio il chiudere a chiave una porta.”
“Si, Supremo.”
“Ma la causa, appunto, è sola causa di ogni effetto.”
“Si, supremo”
“Uno spiraglio è fatto per spiarvi.”
“Vero, Supremo”
“Il mio uscio, perciò, è colpevole del tuo sguardo inopportuno.”
“Si, supremo”
Telemone, schiacciato dal tallone del terrore e della colpa, ottenebrato della vergogna, confuso dalla maestà del
Maestro e spezzato dalla consapevolezza della propria nullità al cospetto di quell’astro di scienza e di possanza,
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MessaggioTitolo: Re: Studenti di Hoeth   Studenti di Hoeth Icon_minitimeLun Feb 25, 2008 6:45 am

rispondeva farfugliando senza pensare, senza ascoltare, senza neppure in effetti comprendere una singola sillaba delle
parole di Teclis. “Ora – riusciva soltanto a ripetere a sé stesso – il mio Essere verrà dissolto nell’Aethyr. La mia
carriera e le speranze di mago sono ormai inconsistenti come la rena di Nagarythe.” Soprattutto quando Teclis tacque
a concedersi una lunga pausa di riflessione.
“Ciò appurato… – seguitò quindi il Custode con inflessione di amarezza - Sfacciataggine per sfacciataggine…
dimmi, tu che sei giovane e vigoroso: fui davvero una creatura patetica, nevvero?”
Lo studente durò fatica ad affrontare la domanda: “Cosa, Supremo?…”
“E in seguito addirittura peggiorai. Non un ragazzo: uno scherzo, caricatura d’Asur… In effetti, è l’unico ritratto che
mio padre commissionò.”
Ora l’accento di Teclis si era fatto di commovente dolcezza. Il volto, lo
sguardo del Signore di Hoeth trasfigurò agli acuti sensi di Telemone in
una maschera di malinconia e fragilità. Il Maestro gli riuscì… ebbene:
un inetto! Una figura di avorio millenario che un nonnulla avrebbe
infranta e dispersa; un carattere inadatto alle fatiche del mondo. E il
giovane elfo fu d’un subito illuminato:
“Quel bambino eravate Voi, Supremo?!…”
“E’ vero, non mi assomiglia. Fu un incidente: non riuscivo in nessun
modo a sollevare la spada. L’armatura mi ingobbiva. Non imparai a
cavalcare. L’artista mi fece posare più e più volte: inutile. Finivo
comunque per gettarmi a terra e piangere. Così abbozzò, ritrasse a
memoria… E’ vero, è imperfetto. Ma lo conservo con affetto.”
Le parole bruciarono in gola a quel punto, a Telemone, con sfrontata e
sincera necessità. Il piccolo, assurdo, velenoso groppo al cuore che da
tre decadi lo avvelenava ogni giorno.
“Ma in seguito?! La Tradizione di Hoeth?! La Disciplina dell’Arco,
dell’Acciaio?! Come poteste, così debole?! Io…”
“Un disastro! – ammise Teclis con una cristallina, gioiosa risata – Un
disastro! Un incapace!… Il peggiore da mille anni a questa parte!”
E lo studente avvertì, nel profondo dell’anima, sorgere la luce pura e
salvifica delle stelle.
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