Il Vecchio Mondo -Warhammer Fantasy e 40K-
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     L’Apprendista e la Lezione

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    MessaggioTitolo: L’Apprendista e la Lezione   L’Apprendista e la Lezione Icon_minitimeLun Feb 25, 2008 6:47 am

    Il Dottore, in verità ben noto Mago, passeggiava sugli spalti addormentati e soffiava tre volte il naso nel fazzoletto. Lo
    accompagnava il suo apprendista Giovanni, sempre mantenendosi alla sua destra a capo chino a dimostrare umiltà. Ogni mattino
    abbandonavano il laboratorio, si destavano assai prima dell’alba e delle storte e gli alambicchi e del camino; abbandonavano i
    forni freddi a sé stessi e lasciavano che gli elementi – lo zolfo e il mercurio – giacessero ancora nei loro vasi di porcellana,
    nell’attesa dell’ora più propizia per operare. Il Maestro per primo, e Giovanni apriva gli occhi poco dopo. E il Dottore aveva un
    modo curioso di fare sì che si levasse dalle coperte: restava in piedi innanzi al rettangolo della finestra e bisbigliava un qualche
    alchemico segreto. Giovanni così, scotendosi dal sonno, intravedeva all’altro capo della stanza quel profilo misterioso e barbuto,
    quel volto in ombra aureolato d’aurora e sperava, secondo quanto letto in tanti libri, che l’ora fosse venuta per lui che la visione
    s’incarnava nella realtà. A malapena certi intensi odori lo avvertivano che non stava più dormendo, o un carro fuori che
    caracollasse sul selciato o quanto veniva dalla cucina e dallo studio. Recitava un Deus Sigmar, il Vitriol, e allora, quando il
    Maestro già lo vedeva ritto sui gomiti, i capelli arruffati, la voce secca che gli usciva dalla gola a stento, per il timore e il lungo
    silenzio notturno, imbarazzata la pronuncia del Classico, cessava ad un tratto quel mite sussurro da apparizione e tornava ad
    assumere il severo tono del precettore: “Non bestemmiare le cose dell’Arte, alzati: è l’ora questa della nostra passeggiata.”
    Giovanni seguiva il Dottore, si vestiva senza radersi né pettinarsi tanto a quell’ora nessuno lo avrebbe visto. Almeno non gli amici
    e le ragazze, che di casa uscivano di rado. Chiudeva a chiave l’uscio con cura e sulla soglia, come innanzi ad una chiesa, si
    fermava e s’inginocchiava segnandosi. Così perché era il sancta sanctorum, e così gli era stato insegnato. Il Dottore lo osservava
    su dalla strada già arrampicato sulla schiena d’un ponticello, vigile e fermo epperò con malinconia; come sapesse che la fine era
    vicina ormai, questione d’ore, di giorni; e che lui, nel poco tempo che gli era stato concesso su questa terra, prima di ascendere o
    ritornare alla Città dei Sapienti, alla Vera Altdorf Celeste, non era riuscito in fin dei conti ad insegnarli più che il segreto di un
    qualche unguento od elisir. Giovanni preferiva non guardare, restare a testa bassa, occuparsi del catenaccio ed il lucchetto e, con
    un salto, raggiungerlo sul ponte: perché i suoi dubbi e il suo carattere fragile, con il colore di quello sguardo stanco, da vecchio,
    vicino alla malattia ed alla confusione, anzi senz’altro prossimo alla morte, e a nient’altro, troppo facilmente lo avrebbero fatto
    cedere.
    “Il Segreto dell’Arte, qual è?”
    La passeggiata principiava così, con Giovanni che poneva devote domande senza ascoltarsi, senza attendere risposta, senza
    pensare alle parole che profferiva, senza curarsi della logica dei suoi quesiti, senza amore, perché neppure erano questioni che gli
    appartenevano. Altri segreti sinceramente bramava: il fine ultimo, la cosiddetta trasmutazione della materia e dei metalli,
    l’ottenere oro dal niente o dal piombo, sostanze vili, poco o nulla in realtà gli interessava. E anche il Maestro poco se ne curava:
    dichiarava d’avere mete più alte, e nobili e sottili, e questo in parte lo confortava perché sapeva di servire un padrone onesto, e
    immaginava soprattutto gli risparmiasse gran lavoro e fatica. Aveva conosciuti apprendisti in altre botteghe, e sempre li aveva
    visti al tramonto cadere addormentati senza fiato e con le spalle rotte, e il giorno seguente sottoporsi ancora a sforzi ingrati senza
    mai essere davvero riposati. Ne sarebbe stato spezzato da un pezzo, lui. Timido, debole, di carattere riservato, il corpo fragile e
    spesso toccato dalle malattie, senz'alcun dono né talento né attitudine particolare, senza mai avere appreso nulla da alcuna scuola,
    esperienza e mestiere, Giovanni non sperava in cuor suo che di riuscire, semplicemente, a comprendere senza troppo dolore quale
    fosse il suo posto nel mondo. Questo solo: il mondo piccolo e semplice del fango, delle osterie e delle case e degli uomini. Quello
    sottile, l’Empireo Iperuraneo, l’universo ch’era promesso ai Filosofi come il Dottore, non presumeva d’avere né l’intelligenza né
    il coraggio di poterlo, un giorno, contemplare. Non sperava di potere acquisire alcuna virtù. Non era così acuta la sua mente. E il
    Maestro lo avrebbe pure disprezzato senz'alcun dubbio: ma che? Giovanni poneva domande. E basta. E sempre le medesime
    domande e sempre nella medesima successione, secondo un rituale mandato a memoria e a bastonate da quando appena aveva
    appreso a parlare. Perché questa in fin dei conti era la regola, questo era il dovere. L’autorità del Maestro gli insegnava, senza che
    egli avesse bisogno di parlare, che ripetere era parte del segreto. Pur non comprendendo. Anche se il Dottore non gli aveva
    risposto mai, non aveva mai accennato, in verità, neppure ad un principio di spiegazione. E neppure poteva essere certo che lo
    ascoltasse, il Maestro.
    Salivano le scale, guadagnavano i bastioni. Le sentinelle, e in città tutti quanti, erano ormai abituati da tempo a quel pazzo vestito
    di nero dalla barba lunga che veniva a camminare le mura ogni mattina portandosi dietro il ragazzo. Neppure più domandandogli
    di fermarsi, ma anzi con un benevolo inchino di cortesia, frammisto a scherno e compassione, l’alabardiere apriva il cancello e li
    faceva accedere ai camminamenti superiori; salutato da un cenno di capo o un sorriso di Giovanni perché il Dottore, sia mai,
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    MessaggioTitolo: Re: L’Apprendista e la Lezione   L’Apprendista e la Lezione Icon_minitimeLun Feb 25, 2008 6:48 am

    sarebbe montato su tutte le furie se l’apprendista avesse interrotto il silenzio o l’ininterrotta successione di quesiti. Chissà,
    avrebbe potuto frustarlo. Cacciarlo. Maledirlo. Negargli per sempre l’Ultimo Segreto dell’Opera. La Vita Vera quindi. Egli stesso
    procedeva tacendo, posando lo sguardo su tutto quello che lo circondava ma appena, distrattamente, per accorgersi di un intoppo,
    di un qualche ostacolo, e seguire lo stesso indisturbato nella passeggiata. E tornava a fissare il vuoto ostinatamente.
    Giovanni invece, ripresosi dallo sforzo di svegliarsi fin troppo presto - cosa a cui non era mai riuscito ad abituarsi, in tanti anni -
    gradiva evadere dal laboratorio e mescolarsi a quelle mattine che nascevano. Gradiva avvertire il moto banale del mondo
    nell’incontrare le stesse facce che attraversavano le stesse strade. Gli sembrava che il tempo, così, scorresse più dolcemente,
    recando pure un insostituibile beneficio. Volentieri dimenticava l’indice oscuro del vecchio alato effigiato sinistro sull’orologio
    della città. E l’iscrizione: Totus Tempus Morri; tutto il tempo appartiene a Morr.
    “Il Segreto dell’Arte, qual è?”
    Giunti che furono alla porta occidentale, ormai lontani dal frastuono del mercato, dal bagliore delle armi e dei cannoni, dal sorriso
    delle prostitute, dalla volgare confusione delle guardie, dal tintinnio delle monete, l’odore e il rutilante aspetto delle mercanzie,
    Giovanni – il sole era già alto nel cielo – si aspettava che come ogni giorno da quindici anni il Dottore, adesso, ritornasse sui suoi
    passi; che era tempo di rientrare al laboratorio per fare cuocere e sublimare gli elementi. E che lui dovesse, così, seguirlo in
    silenzio; che anche per oggi s’era conclusa la passeggiata e lui poteva pure finirla, allora, con quell’eterna litania di quesiti
    alchemici: ché ancora a nulla gli era valso il periplo, e non ne aveva ancora inteso il significato o non aveva saputo porgere la
    giusta domanda.
    Invece no.
    Fermatosi all’ombra delle torri di guardia, dove ora una ridotta ormai in disuso era stata trasformata in una fonte da bucato - una
    bocca e una cisterna cupa, profonda - il Dottore si appoggiò alle pietre invitando Giovanni, con un cenno, sempre in silenzio, a
    sedergli accanto; e abbandonò la mano rugosa nell’acqua descrivendo con lentezza ampie curve e cerchi concentrici. Giovanni
    esitò: era davvero la prima volta che il Maestro si fermava; che senza parlare, e senza neppure guardarlo in faccia, non disponeva
    arbitrariamente di rientrare in casa, a lavorare, imponendogli di non seccarlo per tutto il resto della giornata. Egli era tutto collera
    e severità. Non conosceva un invito simile, una simile gentilezza. Pensò il Dottore si sentisse male. Pensò che forse, con la sua
    ostinata ignoranza, la sua scarsa intelligenza, la sua mancanza d’intuizione finalmente lo aveva stancato, deluso, o irritato oltre il
    segno. Forse quel giorno, nel corso della passeggiata, nel porgere le sue inutili domande, nella sua condotta, nel tono stanco e
    demotivato del suo domandare avesse commesso qualche cosa di grave, di molto grave, di sbagliato. Di irreparabile. E adesso il
    Dottore si era arrestato per dirglielo. Per cacciarlo per sempre dalla Sottile Città dei Filosofi. Esitò. Restava goffamente in piedi. Il
    Maestro allora lo afferrò per un braccio, con una tale sorprendente forza e rapidità che Giovanni non riuscì a rispondere neppure
    d’istinto; e con vigore lo trasse a sé, al suo fianco, fino a farlo accomodare accanto a lui sulla vasca.
    “So quello che pensi, ti leggo dentro – lo ammonì il Dottore – ma non temere. Non intendo rimproverarti. Sei piuttosto un bravo
    apprendista, non mi lamento; e oggi non hai commesso alcun errore. Anzi. Ascolta.”
    E gli parve allora di udire in lontananza, da qualche parte, un sinistro e persistente cigolio. Una carrucola, una ruota, un cardine
    spezzato. Fra i rumori della città che nasceva, ed industriosa si impadroniva del mattino, solo quel gemito più acuto di tutti gli
    altri. E così intenso, e sinistro, da farlo rabbrividire.
    Viso a viso, fronte a fronte, ciglio a ciglio, il Dottore prese a fissarlo con una terribile espressione, con mortale intensità.
    Nell’ombra sotto l’arco del barbacane il suo volto era grigio come quello di una statua. Mosse le labbra, respirava con difficoltà, e
    sembrò che ogni parola gli costasse un’eterna fatica: “Ascolta – disse – perché il momento è venuto: e se pure tu non mi hai mai
    posto le domande giuste, il silenzio dev’essere interrotto. Infatti non credo di poter resistere ancora per molto tempo. Io voglio
    rivelarti, oggi, il Segreto dell’Arte. M’intendi?”
    Giovanni ebbe un sussulto, un brivido gli percorse la schiena. Annuì, perché anche era abituato ad annuire, ma quello che il
    maestro gli aveva detto, se pure lo aveva compreso perfettamente, e avrebbe dovuto procurargli una intensa gioia, credette d’un
    subito di avvertirlo come un suono antico, lontano e minaccioso. Simile piuttosto ad uno schianto. Non un suono, ma il ricordo di
    un suono, che lo ferì ferocemente dentro, facendogli accapponare la pelle come il graffio delle unghie su una lavagna.
    All’improvviso, e del tutto senza ragione, una stretta angosciosa lo prese al cuore e alla gola, e le cose familiari che lo
    circondavano – le mura, la strada, la voce e il volto del maestro, il cielo chiaro e il colore nero dei tetti – gli apparvero aliene e
    terribili e nuove. La folla che si affacciava dalle finestre, che percorreva incessantemente il ponte su e giù, ferma a parlottare ai
    crocicchi, piuttosto che il frenetico senso di vitalità che sempre gli aveva trasmesso nell’osservarla e attraversarla adesso lo
    atterriva per la sua vecchiezza, per un senso profondo di confusione, incomunicabilità, desolazione. Che cosa gli succedeva?
    Perché? I nervi lo avrebbero fatto saltare in piedi, subito, tutto il suo corpo gridava di andarsene, fuggire, nascondersi. D’istinto
    avrebbe agito come una bestia cacciata; e solo la sorpresa, l’ansia e il desiderio di sapere coltivato con rabbia e frustrazione per
    quindici anni, forse, gli conferivano la forza di restare. Dalla bocca della fonte, alle sue spalle, l’acqua seguitava a riversarsi nella
    vasca con un rumore monotono e feroce; lo sguardo fisso del mascherone di pietra che vomitava quel fiotto, scolpito sulla parete,
    gli occhi del Maestro, erano la stessa cosa, e lo terrorizzavano. Sentiva l’acqua inzuppargli i vestiti, coprendolo di gocce minute o
    raccogliendosi in una pozzanghera sul selciato dove appoggiava i suoi piedi calzati. E anche questo, per qualche ragione, gli
    incuteva paura. Le ombre umide della porta e della torre gli facevano paura. Vedeva nell’acqua la mano debole del Dottore e
    sentiva l’altra stringersi attorno al suo polso, dura, fredda. Ancora, in lontananza, avvertiva quel persistente, sinistro cigolio e pure
    questo adesso lo spaventava a morte. Perché?
    “O meglio – proseguì il Dottore, e sempre come se la sua voce si perdesse nelle profondità di un pozzo – tu forse oggi lo
    apprenderai da solo, il Segreto. Ti sarà data l’occasione di apprenderlo, intendo una vera occasione: abbandona le storte,
    abbandona gli alambicchi, abbandona il macerare degli elementi. Tutto quello che ti ho insegnato fino ad ora, nel laboratorio, ti
    potrà al massimo servire nei tuoi giorni a venire per procurarti di che mangiare e non vivere come un mendicante. Potresti servire
    come cerusico o speziale. Come cuoco, perché no? Potresti percorrere la campagna da ciarlatano e barattare olii e intrugli per
    cacciagione e monete di poco valore. Dagli strumenti apprenderai l’uso degli strumenti, le proprietà benigne e maligne della
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    MessaggioTitolo: Re: L’Apprendista e la Lezione   L’Apprendista e la Lezione Icon_minitimeLun Feb 25, 2008 6:48 am

    materia, ma soltanto la materia e i vari modi di manipolarla. Il Segreto, tuttavia, non sta lì; il Segreto non sta nello zolfo e nel
    mercurio. Il Segreto… Oh!”
    Il Dottore si piegò in avanti, trafitto al ventre da un dolore lancinante. La mano che teneva abbandonata nell’acqua, a disegnare
    curve, cerchi concentrici, si irrigidì fino ad assomigliare a una radice secca e a scivolare sul bordo insicuro della vasca. Giovanni
    lo trattenne e gli evitò di cadere.
    “Tu oggi conoscerai, conoscerai… E forse più ancora io conoscerò, per certo… Entrerò nella Città Celeste…”
    “Maestro!…”
    Il Dottore si era accasciato contro Giovanni, il capo rovesciato all’indietro e le membra sempre più rigide e fredde. Pesava, pur
    vecchio e fragile di costituzione, pesava terribilmente. L’acqua gli aveva intriso il lungo pastrano; il corpo ormai, come un
    piombo o una pietra, scivolava sul bordo di marmo fino alle brune profondità della vasca. Giovanni non aveva più forze. Non
    riusciva a sostenerlo, cadeva.
    “Lasciami andare – lo implorò il Maestro – lascia, lascia, lascia che io vada…” E ormai il suo sguardo non era più per
    l’apprendista o la strada, i tetti neri o l’intenso azzurro del cielo. Il cappello gli era caduto all’indietro, e il crine lungo e il manto
    bianco della barba, scomponendosi qua e là, nell’acqua, sulle vesti e sul petto, formavano tutt’attorno alla sua figura come un
    confuso disegno di ragnatela, di crepe, di fratture profonde; l’immagine di uno specchio in frantumi. Così il volto grigio e la pelle,
    sempre più raggrinzita, sempre più tutta segnata di rughe; così l’iride grigia che si spegneva e che anche diventava più chiara,
    perdeva di colore. Ma era come, tuttavia, s’incendiasse di una luce diversa.
    Giovanni, sopraffatto dal terrore e più ancora dalla certezza paurosa che così avrebbe perduto il Maestro, e che sarebbe perciò
    restato solo, neppure riusciva a chiamare, a gridare, a fare accorrere gente. Impotente osservava il vecchio cadere, e anzi credette
    nella sua goffaggine, tentando ancora il tutto per salvarlo, di essere invece proprio lui, ora, a spingerlo giù più a fondo nelle
    tenebre. Come forzato da una crudele necessità.
    “Maestro!”
    Ormai il corpo del vecchio era nell’acqua. Spento. E sembrava dissolversi o scomparire fra i vestiti gonfi e pesanti. Scivolava nel
    grembo scuro di marmo con un sordo eppure dolce gorgoglio, docile al risucchio del fondo. Diveniva azzurro, verde e poi
    invisibile. Giovanni affondava le mani nell’acqua senza riuscire ad afferrare niente, solo a spezzare un riflesso confuso in
    superficie.
    “Maestro!”
    Il respiro infuocato del mezzogiorno, invisibile, saliva su dai tetti della città col borbottio delle pignatte sul fuoco, la mescita dei
    vini e della birra e lo sfrigolio delle carni fra le graticole. Il bucato asciugava sulle terrazze e cani e gatti cercavano il fresco di un
    pergolato. Nell’ombra confortevole di casa, seduti attorno al tavolo, le famiglie riunite, i borghesi attendevano con sonnolenta
    felicità che le domestiche riempissero loro il piatto, le damigiane pisciassero nettare nelle bottiglie e il pane bianco fosse affettato
    e imburrato. In abbondanza. Sigmar sia ringraziato per queste cose! L’eco piccolo e argenteo delle forchette rimbalzava sulle
    insegne bronzee delle alte dimore, e così si rompeva sui serpenti e sui grifoni e sui leoni e sui galli. Si rompeva sul corpo grosso
    delle campane e continuava a salire più in alto. Pareva quasi di poterlo seguire in una scia lucente; e lasciandosi vincere dal
    torpore, ad occhi socchiusi, di scorgere in quella il disegno di un cervo che s’infrascasse. Di un’ala. Lo spirito del Maestro se ne
    andava in quel tintinnio, un rumore piccino di cose insignificanti.
    “Il Segreto dell’Arte, qual è?”
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