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| | L’Apprendista e la Lezione | |
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Il soldato Umano
Numero di messaggi : 208 Età : 33 Località : Pisa Data d'iscrizione : 17.01.08
| Titolo: L’Apprendista e la Lezione Lun Feb 25, 2008 6:47 am | |
| Il Dottore, in verità ben noto Mago, passeggiava sugli spalti addormentati e soffiava tre volte il naso nel fazzoletto. Lo accompagnava il suo apprendista Giovanni, sempre mantenendosi alla sua destra a capo chino a dimostrare umiltà. Ogni mattino abbandonavano il laboratorio, si destavano assai prima dell’alba e delle storte e gli alambicchi e del camino; abbandonavano i forni freddi a sé stessi e lasciavano che gli elementi – lo zolfo e il mercurio – giacessero ancora nei loro vasi di porcellana, nell’attesa dell’ora più propizia per operare. Il Maestro per primo, e Giovanni apriva gli occhi poco dopo. E il Dottore aveva un modo curioso di fare sì che si levasse dalle coperte: restava in piedi innanzi al rettangolo della finestra e bisbigliava un qualche alchemico segreto. Giovanni così, scotendosi dal sonno, intravedeva all’altro capo della stanza quel profilo misterioso e barbuto, quel volto in ombra aureolato d’aurora e sperava, secondo quanto letto in tanti libri, che l’ora fosse venuta per lui che la visione s’incarnava nella realtà. A malapena certi intensi odori lo avvertivano che non stava più dormendo, o un carro fuori che caracollasse sul selciato o quanto veniva dalla cucina e dallo studio. Recitava un Deus Sigmar, il Vitriol, e allora, quando il Maestro già lo vedeva ritto sui gomiti, i capelli arruffati, la voce secca che gli usciva dalla gola a stento, per il timore e il lungo silenzio notturno, imbarazzata la pronuncia del Classico, cessava ad un tratto quel mite sussurro da apparizione e tornava ad assumere il severo tono del precettore: “Non bestemmiare le cose dell’Arte, alzati: è l’ora questa della nostra passeggiata.” Giovanni seguiva il Dottore, si vestiva senza radersi né pettinarsi tanto a quell’ora nessuno lo avrebbe visto. Almeno non gli amici e le ragazze, che di casa uscivano di rado. Chiudeva a chiave l’uscio con cura e sulla soglia, come innanzi ad una chiesa, si fermava e s’inginocchiava segnandosi. Così perché era il sancta sanctorum, e così gli era stato insegnato. Il Dottore lo osservava su dalla strada già arrampicato sulla schiena d’un ponticello, vigile e fermo epperò con malinconia; come sapesse che la fine era vicina ormai, questione d’ore, di giorni; e che lui, nel poco tempo che gli era stato concesso su questa terra, prima di ascendere o ritornare alla Città dei Sapienti, alla Vera Altdorf Celeste, non era riuscito in fin dei conti ad insegnarli più che il segreto di un qualche unguento od elisir. Giovanni preferiva non guardare, restare a testa bassa, occuparsi del catenaccio ed il lucchetto e, con un salto, raggiungerlo sul ponte: perché i suoi dubbi e il suo carattere fragile, con il colore di quello sguardo stanco, da vecchio, vicino alla malattia ed alla confusione, anzi senz’altro prossimo alla morte, e a nient’altro, troppo facilmente lo avrebbero fatto cedere. “Il Segreto dell’Arte, qual è?” La passeggiata principiava così, con Giovanni che poneva devote domande senza ascoltarsi, senza attendere risposta, senza pensare alle parole che profferiva, senza curarsi della logica dei suoi quesiti, senza amore, perché neppure erano questioni che gli appartenevano. Altri segreti sinceramente bramava: il fine ultimo, la cosiddetta trasmutazione della materia e dei metalli, l’ottenere oro dal niente o dal piombo, sostanze vili, poco o nulla in realtà gli interessava. E anche il Maestro poco se ne curava: dichiarava d’avere mete più alte, e nobili e sottili, e questo in parte lo confortava perché sapeva di servire un padrone onesto, e immaginava soprattutto gli risparmiasse gran lavoro e fatica. Aveva conosciuti apprendisti in altre botteghe, e sempre li aveva visti al tramonto cadere addormentati senza fiato e con le spalle rotte, e il giorno seguente sottoporsi ancora a sforzi ingrati senza mai essere davvero riposati. Ne sarebbe stato spezzato da un pezzo, lui. Timido, debole, di carattere riservato, il corpo fragile e spesso toccato dalle malattie, senz'alcun dono né talento né attitudine particolare, senza mai avere appreso nulla da alcuna scuola, esperienza e mestiere, Giovanni non sperava in cuor suo che di riuscire, semplicemente, a comprendere senza troppo dolore quale fosse il suo posto nel mondo. Questo solo: il mondo piccolo e semplice del fango, delle osterie e delle case e degli uomini. Quello sottile, l’Empireo Iperuraneo, l’universo ch’era promesso ai Filosofi come il Dottore, non presumeva d’avere né l’intelligenza né il coraggio di poterlo, un giorno, contemplare. Non sperava di potere acquisire alcuna virtù. Non era così acuta la sua mente. E il Maestro lo avrebbe pure disprezzato senz'alcun dubbio: ma che? Giovanni poneva domande. E basta. E sempre le medesime domande e sempre nella medesima successione, secondo un rituale mandato a memoria e a bastonate da quando appena aveva appreso a parlare. Perché questa in fin dei conti era la regola, questo era il dovere. L’autorità del Maestro gli insegnava, senza che egli avesse bisogno di parlare, che ripetere era parte del segreto. Pur non comprendendo. Anche se il Dottore non gli aveva risposto mai, non aveva mai accennato, in verità, neppure ad un principio di spiegazione. E neppure poteva essere certo che lo ascoltasse, il Maestro. Salivano le scale, guadagnavano i bastioni. Le sentinelle, e in città tutti quanti, erano ormai abituati da tempo a quel pazzo vestito di nero dalla barba lunga che veniva a camminare le mura ogni mattina portandosi dietro il ragazzo. Neppure più domandandogli di fermarsi, ma anzi con un benevolo inchino di cortesia, frammisto a scherno e compassione, l’alabardiere apriva il cancello e li faceva accedere ai camminamenti superiori; salutato da un cenno di capo o un sorriso di Giovanni perché il Dottore, sia mai, | |
| | | Il soldato Umano
Numero di messaggi : 208 Età : 33 Località : Pisa Data d'iscrizione : 17.01.08
| Titolo: Re: L’Apprendista e la Lezione Lun Feb 25, 2008 6:48 am | |
| sarebbe montato su tutte le furie se l’apprendista avesse interrotto il silenzio o l’ininterrotta successione di quesiti. Chissà, avrebbe potuto frustarlo. Cacciarlo. Maledirlo. Negargli per sempre l’Ultimo Segreto dell’Opera. La Vita Vera quindi. Egli stesso procedeva tacendo, posando lo sguardo su tutto quello che lo circondava ma appena, distrattamente, per accorgersi di un intoppo, di un qualche ostacolo, e seguire lo stesso indisturbato nella passeggiata. E tornava a fissare il vuoto ostinatamente. Giovanni invece, ripresosi dallo sforzo di svegliarsi fin troppo presto - cosa a cui non era mai riuscito ad abituarsi, in tanti anni - gradiva evadere dal laboratorio e mescolarsi a quelle mattine che nascevano. Gradiva avvertire il moto banale del mondo nell’incontrare le stesse facce che attraversavano le stesse strade. Gli sembrava che il tempo, così, scorresse più dolcemente, recando pure un insostituibile beneficio. Volentieri dimenticava l’indice oscuro del vecchio alato effigiato sinistro sull’orologio della città. E l’iscrizione: Totus Tempus Morri; tutto il tempo appartiene a Morr. “Il Segreto dell’Arte, qual è?” Giunti che furono alla porta occidentale, ormai lontani dal frastuono del mercato, dal bagliore delle armi e dei cannoni, dal sorriso delle prostitute, dalla volgare confusione delle guardie, dal tintinnio delle monete, l’odore e il rutilante aspetto delle mercanzie, Giovanni – il sole era già alto nel cielo – si aspettava che come ogni giorno da quindici anni il Dottore, adesso, ritornasse sui suoi passi; che era tempo di rientrare al laboratorio per fare cuocere e sublimare gli elementi. E che lui dovesse, così, seguirlo in silenzio; che anche per oggi s’era conclusa la passeggiata e lui poteva pure finirla, allora, con quell’eterna litania di quesiti alchemici: ché ancora a nulla gli era valso il periplo, e non ne aveva ancora inteso il significato o non aveva saputo porgere la giusta domanda. Invece no. Fermatosi all’ombra delle torri di guardia, dove ora una ridotta ormai in disuso era stata trasformata in una fonte da bucato - una bocca e una cisterna cupa, profonda - il Dottore si appoggiò alle pietre invitando Giovanni, con un cenno, sempre in silenzio, a sedergli accanto; e abbandonò la mano rugosa nell’acqua descrivendo con lentezza ampie curve e cerchi concentrici. Giovanni esitò: era davvero la prima volta che il Maestro si fermava; che senza parlare, e senza neppure guardarlo in faccia, non disponeva arbitrariamente di rientrare in casa, a lavorare, imponendogli di non seccarlo per tutto il resto della giornata. Egli era tutto collera e severità. Non conosceva un invito simile, una simile gentilezza. Pensò il Dottore si sentisse male. Pensò che forse, con la sua ostinata ignoranza, la sua scarsa intelligenza, la sua mancanza d’intuizione finalmente lo aveva stancato, deluso, o irritato oltre il segno. Forse quel giorno, nel corso della passeggiata, nel porgere le sue inutili domande, nella sua condotta, nel tono stanco e demotivato del suo domandare avesse commesso qualche cosa di grave, di molto grave, di sbagliato. Di irreparabile. E adesso il Dottore si era arrestato per dirglielo. Per cacciarlo per sempre dalla Sottile Città dei Filosofi. Esitò. Restava goffamente in piedi. Il Maestro allora lo afferrò per un braccio, con una tale sorprendente forza e rapidità che Giovanni non riuscì a rispondere neppure d’istinto; e con vigore lo trasse a sé, al suo fianco, fino a farlo accomodare accanto a lui sulla vasca. “So quello che pensi, ti leggo dentro – lo ammonì il Dottore – ma non temere. Non intendo rimproverarti. Sei piuttosto un bravo apprendista, non mi lamento; e oggi non hai commesso alcun errore. Anzi. Ascolta.” E gli parve allora di udire in lontananza, da qualche parte, un sinistro e persistente cigolio. Una carrucola, una ruota, un cardine spezzato. Fra i rumori della città che nasceva, ed industriosa si impadroniva del mattino, solo quel gemito più acuto di tutti gli altri. E così intenso, e sinistro, da farlo rabbrividire. Viso a viso, fronte a fronte, ciglio a ciglio, il Dottore prese a fissarlo con una terribile espressione, con mortale intensità. Nell’ombra sotto l’arco del barbacane il suo volto era grigio come quello di una statua. Mosse le labbra, respirava con difficoltà, e sembrò che ogni parola gli costasse un’eterna fatica: “Ascolta – disse – perché il momento è venuto: e se pure tu non mi hai mai posto le domande giuste, il silenzio dev’essere interrotto. Infatti non credo di poter resistere ancora per molto tempo. Io voglio rivelarti, oggi, il Segreto dell’Arte. M’intendi?” Giovanni ebbe un sussulto, un brivido gli percorse la schiena. Annuì, perché anche era abituato ad annuire, ma quello che il maestro gli aveva detto, se pure lo aveva compreso perfettamente, e avrebbe dovuto procurargli una intensa gioia, credette d’un subito di avvertirlo come un suono antico, lontano e minaccioso. Simile piuttosto ad uno schianto. Non un suono, ma il ricordo di un suono, che lo ferì ferocemente dentro, facendogli accapponare la pelle come il graffio delle unghie su una lavagna. All’improvviso, e del tutto senza ragione, una stretta angosciosa lo prese al cuore e alla gola, e le cose familiari che lo circondavano – le mura, la strada, la voce e il volto del maestro, il cielo chiaro e il colore nero dei tetti – gli apparvero aliene e terribili e nuove. La folla che si affacciava dalle finestre, che percorreva incessantemente il ponte su e giù, ferma a parlottare ai crocicchi, piuttosto che il frenetico senso di vitalità che sempre gli aveva trasmesso nell’osservarla e attraversarla adesso lo atterriva per la sua vecchiezza, per un senso profondo di confusione, incomunicabilità, desolazione. Che cosa gli succedeva? Perché? I nervi lo avrebbero fatto saltare in piedi, subito, tutto il suo corpo gridava di andarsene, fuggire, nascondersi. D’istinto avrebbe agito come una bestia cacciata; e solo la sorpresa, l’ansia e il desiderio di sapere coltivato con rabbia e frustrazione per quindici anni, forse, gli conferivano la forza di restare. Dalla bocca della fonte, alle sue spalle, l’acqua seguitava a riversarsi nella vasca con un rumore monotono e feroce; lo sguardo fisso del mascherone di pietra che vomitava quel fiotto, scolpito sulla parete, gli occhi del Maestro, erano la stessa cosa, e lo terrorizzavano. Sentiva l’acqua inzuppargli i vestiti, coprendolo di gocce minute o raccogliendosi in una pozzanghera sul selciato dove appoggiava i suoi piedi calzati. E anche questo, per qualche ragione, gli incuteva paura. Le ombre umide della porta e della torre gli facevano paura. Vedeva nell’acqua la mano debole del Dottore e sentiva l’altra stringersi attorno al suo polso, dura, fredda. Ancora, in lontananza, avvertiva quel persistente, sinistro cigolio e pure questo adesso lo spaventava a morte. Perché? “O meglio – proseguì il Dottore, e sempre come se la sua voce si perdesse nelle profondità di un pozzo – tu forse oggi lo apprenderai da solo, il Segreto. Ti sarà data l’occasione di apprenderlo, intendo una vera occasione: abbandona le storte, abbandona gli alambicchi, abbandona il macerare degli elementi. Tutto quello che ti ho insegnato fino ad ora, nel laboratorio, ti potrà al massimo servire nei tuoi giorni a venire per procurarti di che mangiare e non vivere come un mendicante. Potresti servire come cerusico o speziale. Come cuoco, perché no? Potresti percorrere la campagna da ciarlatano e barattare olii e intrugli per cacciagione e monete di poco valore. Dagli strumenti apprenderai l’uso degli strumenti, le proprietà benigne e maligne della | |
| | | Il soldato Umano
Numero di messaggi : 208 Età : 33 Località : Pisa Data d'iscrizione : 17.01.08
| Titolo: Re: L’Apprendista e la Lezione Lun Feb 25, 2008 6:48 am | |
| materia, ma soltanto la materia e i vari modi di manipolarla. Il Segreto, tuttavia, non sta lì; il Segreto non sta nello zolfo e nel mercurio. Il Segreto… Oh!” Il Dottore si piegò in avanti, trafitto al ventre da un dolore lancinante. La mano che teneva abbandonata nell’acqua, a disegnare curve, cerchi concentrici, si irrigidì fino ad assomigliare a una radice secca e a scivolare sul bordo insicuro della vasca. Giovanni lo trattenne e gli evitò di cadere. “Tu oggi conoscerai, conoscerai… E forse più ancora io conoscerò, per certo… Entrerò nella Città Celeste…” “Maestro!…” Il Dottore si era accasciato contro Giovanni, il capo rovesciato all’indietro e le membra sempre più rigide e fredde. Pesava, pur vecchio e fragile di costituzione, pesava terribilmente. L’acqua gli aveva intriso il lungo pastrano; il corpo ormai, come un piombo o una pietra, scivolava sul bordo di marmo fino alle brune profondità della vasca. Giovanni non aveva più forze. Non riusciva a sostenerlo, cadeva. “Lasciami andare – lo implorò il Maestro – lascia, lascia, lascia che io vada…” E ormai il suo sguardo non era più per l’apprendista o la strada, i tetti neri o l’intenso azzurro del cielo. Il cappello gli era caduto all’indietro, e il crine lungo e il manto bianco della barba, scomponendosi qua e là, nell’acqua, sulle vesti e sul petto, formavano tutt’attorno alla sua figura come un confuso disegno di ragnatela, di crepe, di fratture profonde; l’immagine di uno specchio in frantumi. Così il volto grigio e la pelle, sempre più raggrinzita, sempre più tutta segnata di rughe; così l’iride grigia che si spegneva e che anche diventava più chiara, perdeva di colore. Ma era come, tuttavia, s’incendiasse di una luce diversa. Giovanni, sopraffatto dal terrore e più ancora dalla certezza paurosa che così avrebbe perduto il Maestro, e che sarebbe perciò restato solo, neppure riusciva a chiamare, a gridare, a fare accorrere gente. Impotente osservava il vecchio cadere, e anzi credette nella sua goffaggine, tentando ancora il tutto per salvarlo, di essere invece proprio lui, ora, a spingerlo giù più a fondo nelle tenebre. Come forzato da una crudele necessità. “Maestro!” Ormai il corpo del vecchio era nell’acqua. Spento. E sembrava dissolversi o scomparire fra i vestiti gonfi e pesanti. Scivolava nel grembo scuro di marmo con un sordo eppure dolce gorgoglio, docile al risucchio del fondo. Diveniva azzurro, verde e poi invisibile. Giovanni affondava le mani nell’acqua senza riuscire ad afferrare niente, solo a spezzare un riflesso confuso in superficie. “Maestro!” Il respiro infuocato del mezzogiorno, invisibile, saliva su dai tetti della città col borbottio delle pignatte sul fuoco, la mescita dei vini e della birra e lo sfrigolio delle carni fra le graticole. Il bucato asciugava sulle terrazze e cani e gatti cercavano il fresco di un pergolato. Nell’ombra confortevole di casa, seduti attorno al tavolo, le famiglie riunite, i borghesi attendevano con sonnolenta felicità che le domestiche riempissero loro il piatto, le damigiane pisciassero nettare nelle bottiglie e il pane bianco fosse affettato e imburrato. In abbondanza. Sigmar sia ringraziato per queste cose! L’eco piccolo e argenteo delle forchette rimbalzava sulle insegne bronzee delle alte dimore, e così si rompeva sui serpenti e sui grifoni e sui leoni e sui galli. Si rompeva sul corpo grosso delle campane e continuava a salire più in alto. Pareva quasi di poterlo seguire in una scia lucente; e lasciandosi vincere dal torpore, ad occhi socchiusi, di scorgere in quella il disegno di un cervo che s’infrascasse. Di un’ala. Lo spirito del Maestro se ne andava in quel tintinnio, un rumore piccino di cose insignificanti. “Il Segreto dell’Arte, qual è?” | |
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| Titolo: Re: L’Apprendista e la Lezione | |
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