Karl sentì il suo naso pizzicato da un acre odore di foglie marce, seguito immediatamente dal profumo inconfondibile
della selvaggina che rosola sulla calda fiamma.
Non stava sognando, lo confermò il crepitio del fuoco timido nelle sue orecchie e il calore confortò i piedi scalzi, in quel
momento, la parte del suo corpo che più godeva del dolce tepore.
Quando aprì gli occhi la radura lo stupì per la bellezza e la varietà dei suoi colori,
gli stessi che non aveva scorto la sera precedente a causa dell’oscurità e della stanchezza.
Serrò le palpebre come se la bellezza del luogo fosse sinonimo di luminosità, tornando a sollevarle un attimo dopo non
ancora pronto a reggere l’impatto che i raggi del sole avrebbero avuto sui suoi occhi nonostante il riparo offerto dagli
alberi circostanti la radura, i cui rami erano tesi a catturare il caldo sole di settembre.
Appena Karl ebbe riaperto gli occhi si accorse che il sole era già alto in cielo; si costrinse ad alzarsi rievocando, con un
brusco movimento della schiena, l’acuto dolore che lo accompagnav a ormai da quando era partito.
Una volta in piedi notò che due lepri erano a rosolare sul fuoco e sentì una forte stretta alla bocca dello stomaco, erano
dopotutto più di dodici ore che non toccava cibo e il giorno prima aveva marciato sin dall’alba.
Avvicinatosi al fuoco prese ad un’estremità il bastone che trafiggeva una delle due lepri e, avvicinato l’animale fumante
alla bocca, strappo un grosso lembo di carne brunita dal fuoco.
Mandò giù il boccone dopo averlo masticato avidamente e prese a camminare per il sentiero che si inoltrava nella foresta.
Percorse il tortuoso viottolo, che conduceva ad un ruscello poco distante dal suo accampamento, facendo attenzione a
non inciampare nelle grosse e nodose narici che affioravano dal terreno, rendendo difficoltosa la ripida discesa.
Percorrendo gli ultimi passi del sentiero udì chiaramente lo scorrere placido delle acque sovrastato da una voce cristallina
e soave, accompagnata dal suono di una lira.
Uscendo dal folto della foresta vide, nei pressi di un ruscello, i suoi compagni sdraiati sull’erba al fianco di un’essere
meraviglioso assomigliante ad una donna ma mille volte più aggraziato e gentile.
Ella aveva biondi capelli che le scendevano placidamente sulle spalle, i suoi lineamenti erano dolci e nobili ma, nel
contempo, pregni della durezza e della fierezza della natura.
Karl rimase estasiato e, camminando verso quell’idilliaca visione, non le tolse gli occhi di dosso come se, nel caso egli
avesse anche per un solo momento distolto lo sguardo, ella sarebbe scomparsa.
Egli non riuscì a volgere lo sguardo da lei nemmeno quando la vide cambiare sinistramente aspetto e, sotto gli occhi
estasiati e ciechi dei suoi compagni,
tramutarsi in un essere di legno nodoso, nelle cui movenze si intuiva ancora perfettamente la leggiadria e la grazia che,
fino a pochi istanti prima, erano appartenuti ad un essere di celestiale bellezza.
Karl non riuscì a staccarle gli occhi di dosso mentre ella avanzava sporca del sangue dei suoi amici; non riuscì a girarsi e
a scappare, sebbene il suo cuore gli ordinasse di farlo, quando ella tese i frondosi rami verso di lui; continuò a guardarla
mentre sentiva quegli artigli grotteschi afferrargli il collo con forza disumana.
L’ultimo suono che Karl Villigut sentì nella sua breve e insignificante vita di umano fu il suono secco e sinistro del suo
collo che si spezzava.