Janus era sorpreso e non accadeva spesso. Non si aspettava di incontrare qualcuno in quel luogo, non in quel momento: tutto era pronto, poche ore mancavano a quello che sarebbe stato l'evento più decisivo della sua vita e della Storia. In tutto il complesso fermevano gli ultimi preparativi, si correggevano le più minime imperfezioni; le armi, i veicoli venivano ricontrollate; le munizioni e i rifornimento ricontate e risistemate. Ognuno di questi gesti era stato ripetuto meccanicamente ogni giorno di ogni settimana di ogni anno da quando le notizie erano giunte da Isstvan ma la tensione era palpabile e attanagliava ogni combattente, che si trattasse del più umile artigliere seduto vicino alla sua arma nel perimetro esterno ai potenti guerrieri che vegliavano nell'Inner Sanctum.
Janus avrebbe preferito evitare incontri, in primis quelli meno piacevoli. Si avvicinò con lentezza alla figura in armatura potenziata che giaceva in ginocchio al centro dell'immenso anfiteatro, le mani strette sull'elsa di una spada potenziata, eco di guerrieri dimenticati nel corso del tempo.
Il guerriero rimase avvolto nel più assoluto silenzio per molti minuti nonostante fosse a pochi passi da lui. Dopo un'eternità, con un solo gesto elegante, si rimise in piedi e dopo uno sguardo al cielo stellato sopra di lui si voltò verso Janus e abbassò reverentemente la testa.
"Custodes".
Janus si tolse l'alto elmo con pennacchio e incrociò gli occhi dell'altro prima di chinare anche lui la testa in segno di rigoroso rispetto.
"Primo Capitano Sigismund". Non si sarebbe mai potuto sbagliare. Anche chi non aveva mai avuto modo di incontrarlo di persona poteva riconoscere il Capitano della Prima Compagnia della Settima Legione Astartes per via della sua armatura potenziata nera su cui risaltava la Croce di Malta bianca, il suo emblema personale.
Il Cavaliere Nero. Questo era il nome con cui si era soliti nominarlo nelle altre Legioni.
"Mi scuso di aver interrotto la vostra veglia" disse Janus. "Pensavo che il complesso fosse vuoto".
Il Primo Capitano si guardò intorno, i suoi occhi viaggiavano verso gli spalti di pietra privi di vita.
Curiosamente, Sigismund, uomo noto per essere di poche parole, rispose.
"Niente da perdonare, Custodes" disse. "L'ora è pesante per tutti. Comprendo come ci si possa sentire. Su tutti noi grava un compito gravoso e su alcuni il peso è anche maggiore". I loro occhi si incrociarono.
"Ho saputo. Le mie congratulazioni".
Janus strinse l'alabarda con forza. "Grazie, Primo Capitano".
"Il Grande Dorn mi ha affidato un incarico simile". Un tetro sorriso gli apparve sul volto "Certo non parimenti gravoso, ma sempre impegnativo".
"Lo so" disse il Custodes. Valdor aveva messo in conto che Rogal Dorn avrebbe avuto la medesima idea: era impossibile che ad una mente geniale come quella del Pretoriano della Terra sfuggisse un dettaglio simile. Janus notò la tensione che giaceva dormiente nello Space Marine e non disse nulla. Lo conosceva, sapeva che non era paura o timore. Era impossibile che provasse tali sentimenti. Non per via dell'indottrinamento, non per via dell'addestramento o delle capacità. Sigismund era un combattente eccezionale, tra i migliori nelle Legioni, l'impresa che lo chiamava era pari alle sue capacità. Dorn aveva nominato il suo figlio prediletto Campione dell'Imperatore e gli aveva dato un sacro compito: trovare, affrontare e sconfiggere i campioni dei traditori. Guerrieri che avevano forgiato le loro leggende su un altare di sangue nel corso di due secoli di Grande Crociata. Eppure lo sguardo di Sigismund non era attraversato dal minimo dubbio: la sua fede, la sua forza, la sua discplina e il suo zelo lo infiammavano come una stella. Janus avrebbe voluto condividere la sua sicurezza.
Il Primo Capitano gli rivolse un sorriso fraterno poi si allontanò, lasciando il Custodes solo.
Gli occhi del guerriero si volsero alle pedane che svettavano nell'anfiteatro, simboli di gloria, promesse di un futuro migliore di la da venire. Ora non erano altro che tetri monumenti di scherno per colui che le aveva voluto. I veli che ne nascondevano alcune erano solo sale sulla ferita. Forse Sigismund aveva fatto bene a chiedere che venissero rimosse. Tutto sarebbe parso più familiare, più noto. Il dolore e la delusione sarebbero state tante ma avrebbero avuto una forma nota, che sarebbe stata possibile da assimilare.
Non c'erano già due spazi vuoti?
Gli occhi di Janus corsero al vuoto tra la asimmetrico tra la statua del Leone e quella nascosta dal velo della Fenice. Costantin Valdor gli aveva fatto giurare di non parlare mai di lui e Janus aveva obbedito. Ma non era stato capace di dimenticare. Il comandante era stato abbastanza generoso dal non dargli tale ordine.
Sarebbe stato impossibile.
E ancora una volta Janus si ritrovò a camminare insieme ai suoi compagni guerrieri e all'Imperatore nella grande galleria di ghiaccio disseminata di cadaveri, umani e xeno. I primi straziati artigli, zanne e protuberanze osse; i secondi abbattuti da proiettili o da baionette a motosega. Infine la grande caverna e gli occhi di lui, freddi come l'Inferno, mentre sedeva sulla testa decapitata di uno dei più grandi mostri xeno mai visti. Indossava una rozza armatura che gli lasciava le braccia scoperte e sul grembo stava un gande fucile, un cannone, con motosega incorporata.
Si diceva che gli Space Marines non conoscessero la paura. Janus la conosceva. L'aveva provata anni fa.
La caverna era diventata un sontuoso salone di un gigantesco palazzo e le stalattiti e le stalgmiti di ghiaccio erano diventate stemmi e trofei che svettavano e si innalzavano.
I cadaveri erano rimasti però. Non più di uomini o mostri ma di Astartes in armatura grigia.
Decine di cadaveri, non pochi. Qua e la, si intravedevano armature blu scure. Molte di meno.
Anche gli occhi erano rimasti. Uguali, freddi, spietati. L'armatura raccattonata era stata sostituita da un gioiello di artigianato d'oro e il fucile da una spada a catena di dimensioni mostruose. Rivide ancora quello sguardo prima che si allontasse, risentì l'urlo del Lupo di Fenris, insanguinato e piegato ma non sconfitto mentra la preda gli si allontanava da sotto le zanne e sentì le grida dei suoi guerrieri cercavano di trattenerlo. Gli occhi non c'erano più, solo un lungo mantello svolazzante.
E alla fine Janus era nuovamente nell'Anfiteatro. Non più solo. Aemilius, il suo secondo.
"Trovato la risposta?" gli chiese il biondo guerriero.
Janus rimase un attimo in silenzio. "No".
L'altro guerriero gli rivolse un sorriso. "La cercheremo sul campo, allora".
Janus scoppiò a ridere. "Probabile". I due si incamminarono verso l'interno del palazzo.
"Allora, scommetti?" fece Aemilius
"Su cosa?".
"Su chi sarà il primo che affronteremo?".
"Lorgar"
"Eh? Perché?".
"Perché altrimenti non ci sarà mai un dopo".
"Pensi che ci sarà "un dopo"? Pensi di riuscire a sfiorare anche una sola volta uno di loro?".
"Ci proverò. O morirò nel tentativo. Ho già fallito una volta, non fallirò una seconda volta".