COMMIATO NEL BUIO

“Spegnila. Dico a te: consumerà quel poco d’aria che c’è rimasta.”
“…cosa?...”
“Quella tua lampada, *****a.”
“…ma… ma… ma resteremo completamente al buio…”
“Fa differenza?”
“Io… credo… di aver paura del buio…”
Il Nano cacciò un grido di scherno, compatimento, disprezzo; si agitò fra i detriti, i barilotti, i carrelli rovesciati menando gran
colpi e come in cerca di un utensile che gli mancasse: e le travi superstiti a sostenere la galleria scricchiolarono, di nuovo, il loro
pronostico di crollo e di morte. Mastro Olfjosson non tollerò di più i piagnistei del “manovale” - così lo apostrofava – Herr Rainer
Mennschmidt: in verità, come lui, Maestro Muratore Meritorio delle Imperiali (epperò tristemente famose…) Cave di Ferro di
Hegger. Il Nano tuttavia non riusciva per principio ad onorare del mestiere di minatore un umano-che-pure-maneggiasse-ilpiccone;
né prima ancora a considerare giacimento quel buco così poco profondo, e le baracche circostanti, lì al confine del piatto
Regno dell’Ostenmark. Così, irato sempre dal pensiero che si doveva pur campare in qualche modo; e che di meglio non aveva
trovato; e che questo era l’infame destino di un Dawi disgraziato condannato all’esilio; e che il presente era solo l’ultimo di tanti
guai che gli erano già occorsi e che per certo lo attendevano, trovato finalmente un badile fra le macerie sistemò la faccenda di
quella fiamma inopportuna con un colpo deciso alla lanterna del compagno.
“Sei matto?!” – gemè l’umano.
L’oscurità. Tenebre grevi di tanfo d’umido e di polvere; di sinistro sentore di tufo e di zolfo. Per qualche istante echeggiò ancora
nel buio il singhiozzo, lo spavento, l’affanno di Mennschmitd. Che, confortato dal Nano a gran pacche sulla schiena, rimbrotti ed
esortazioni a una virile gaiezza, presto infine si calmò e tornò goffamente a rannicchiarsi nel suo angolo. Olfjosson, alla buon’ora,
poté accendersi l’affezionata ciminiera.
“Ma come?! – protestò l’Imperiale al diffondersi nel cunicolo dell’aroma del tabacco – la lanterna consuma l’aria, la pipa no?!”
“Stupidaggini, Mastro Mennschmitd. Pipare è pipare, è tutt’altra cosa.”
Mennschmidt, per quante volte al lavoro in miniera benedì il fatto di essere in squadra con un Nano, che perdiosigmar se il
mestiere lo conosceva, ora altrettante in quell’estrema situazione malediva quella razza e quell’assurda cultura. Inutile dibattere,
ragionare; discorso chiuso. Meglio, del resto, risparmiare il fiato: da quante tempo erano sepolti là sotto? Quanto tempo ancora gli
rimaneva da vivere?
L’ennesimo crollo nelle Cave di Hegger, villaggio minerario conosciuto in tutto l’Ostenmark con il tetro toponimo di “***** di
Morr” – data la micidiale, infallibile frequenza di cedimenti, allagamenti, esplosioni in galleria che uccidevano ogni anno decine
di operai - costringeva ormai Nano e Umano sottoterra da troppe ore per sperare nei soccorsi. Soli, feriti, impediti da una cascata
di roccia e da carrelli bloccati fra binari ritorti, a trecentosessantotto metri di profondità in una sacca d’aria respirabile di si e no
quattro metri per quattro, Olfjosson e Mennschmidt, per lunga esperienza, avevano compreso sin da un attimo dopo il disastro che
per loro non c’era più speranza. Alla luce di quell’ultima torcia, che ora giaceva inservibile fra i detriti, si erano affrontati
fissandosi a lungo negli occhi ciascuno trincerandosi in uno stoico silenzio. Poi poche parole, per distrarsi dall’inevitabile. Poi la
stanchezza, i nervi dell’Uomo meno saldi di quelli del Nano e infine l’alterco e la collutazione per la fiamma. “Meglio così – si
rassegnò Mennschmidt – nel buio, almeno, non mi vedrò crepare”. E pensò di serbare lucidità e parole per un ultima preghiera
alla Pietosa Shallya – gli concedesse di spegnersi senza avvertire dolore. Deciso anche a restarsene in silenzio perché – dopotutto
– un minuto di più era pur sempre un minuto.
Risoluzione alla quale, da parte di Olfjosson, corrispondeva quel sedersi sui macigni a godere delle ultime boccate.